Come si accende un pensiero? Le parole di Mario Paolini sul tema del distacco al convegno “Oggi per domani”
Mario Paolini, pedagogista, musicologo, docente e formatore di insegnanti di sostengo, è noto a molti come autore del libro Chi sei tu per me? Persone con disabilità e operatori nel quotidiano (Erickson, 2009).
Lo scorso 4 dicembre alla Fattoria Urbana di Bologna, nell’ambito del seminario Oggi per domani a cura di Coop. Accaparlante e Circolo la Fattoria, con un contributo della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Mario ha provato a rispondere a una domanda importante: come accompagnare e sostenere il distacco della persona con disabilità all’interno della famiglia?
Il pedagogista sceglie di partire dall’esperienza e di dare la parola ai diretti interessati.
“Di che distacco stai parlando? Del “Dopo di noi” o robe del genere? Mi stai chiedendo di parlare, senza dirlo, della mia morte, come se fosse facile o scontato parlarne o anche solo pensarci? Ma tu ci pensi alla tua e al dopo di te? Ma che vuoi da me? Che ti aiuti a risolvere i tuoi problemi, che sono quelli di avere un futuro ben descritto, progettato, scansionato e soprattutto tranquillo, con tutte le cose a posto, così stai tranquillo anche tu?
(…)
A Pordenone da diversi anni il progetto “Casa al sole” realizza progetti per la vita indipendente. Un progetto partito da alcune famiglie e sostenuto da operatori e istituzioni. Nel 2017 durante un convegno un genitore diceva questo:
Abbiamo capito sicuramente che i veri artefici della vita indipendente dei nostri figli siamo noi genitori. È infatti la famiglia l’elemento cardine che permette o non permette l’autonomia del figlio, che gli concede il suo spazio di pensiero e quindi la dignità di persona adulta.
È solo la famiglia che può dare quei permessi di crescita necessari ad una evoluzione della persona e che le permettono di conquistare gradualmente una identità adulta.
La visione che noi abbiamo di nostro figlio, delle sue capacità e dei suoi limiti, i nostri atteggiamenti educativi, il nostro modo di relazionarci con lui, le parole che usiamo sono tutti elementi che costruiscono la sua personalità che possono farlo evolvere o che possono fortemente limitarlo nelle sue possibilità.
La comprensione di chi egli è e la fiducia in se stesso gliele diamo noi.
Occorre cominciare presto, fin da piccoli, nel sostenere questo delicato processo di distanziamento. Occorre sapersi immedesimare nei pensieri e nelle preoccupazioni delle famiglie, senza mai giudicare o pensare a priori di avere la risposta giusta. Il metodo di lavoro è quello dell’alleanza. Costruire e manutenere una buona alleanza educativa con le famiglie, tra operatori e servizi, è uno dei mandati richiesti a chi opera in questo ambiente.
Nostro figlio si costruisce l’immagine di sé riflettendosi nei nostri occhi, nello sguardo che abbiamo verso di lui, nel nostro modo di trattarlo; noi siamo lo specchio in cui vede riflessa la sua immagine. Se io gli rimando un’immagine di incapacità, di infantilismo, di limite esonerandolo dalle regole egli avrà un’immagine di sé riduttiva e sarà molto difficile che riesca a far emergere tutte le sue potenzialità. Se io continuo a tenerlo costantemente per mano e lo tratto da bambino anche quando è grande, se per proteggerlo non gli permetto di sperimentare la vita vera, con tutte le regole che questa comporta, l’autonomia e la vita indipendente restano un’utopia.
Parliamoci chiaro, non è che vada sempre bene l’immagine riflessa che, come operatori, insegnanti, educatori, professionisti vari, rimandiamo alle persone con disabilità di cui ci occupiamo: quando va bene sono per sempre ragazzi, ma alle volte, troppe volte, fanno “i lavoretti”, prendono “la paghetta”, per non parlare de “il problema della sessualità”. L’autodeterminazione è un diritto scomodo che richiede agli operatori un cambio di posizionamento nel lavoro di cura. Se non lo troviamo e non rendiamo un po’ più normale, come facciamo a chiedere alle famiglie di farlo?
La possibilità di raggiungere una condizione adulta e una vita indipendente è strettamente legata alla capacità dei genitori di modificare nel tempo il loro modo di relazionarsi con il figlio e alla loro capacità di distanziamento per permettergli di diventare grande. Certamente per un genitore è una strada molto difficile e faticosa.
Dare indipendenza a qualunque figlio è difficile, se il figlio ha una disabilità intellettiva la fatica per me genitore è doppia perché lui non ha la forza di sganciarsi da solo. Perciò devo essere io a superare anche per lui l’istinto di continuare a tenerci per mano e mollare gradualmente la mano che tengo stretta, e che lui da solo non sarebbe in grado di mollare, per permettergli di accendere il “suo” pensiero e percorrere la sua strada. Tenerlo sotto le mie ali protettive potrebbe essere più tranquillizzante per me. Conosco i suoi limiti, ma se gli riconosco anche il diritto ad una sua vita indipendente e vissuta in tutti i suoi aspetti, compreso quello affettivo e sessuale, egli potrà riuscire a farlo solo se io genitore riesco a fare un passo indietro, se io ho la forza e la capacità di tagliare quel cordone ombelicale che ci tiene entrambi attaccati, per permettergli di camminare con le sue gambe.
Ci siamo resi conto che nei confronti dei figli noi facciamo spesso un’azione di sostituzione: pensiamo per loro, parliamo al loro posto, decidiamo per loro, organizziamo noi la loro vita, gliela facilitiamo il più possibile. Ma questi atteggiamenti non li aiutano a crescere nel pensiero e a diventare adulti!
I percorsi verso la vita indipendente implicano un processo di svincolo, di distanziamento graduale del genitore nei confronti del figlio, che non significa abbandono, ma significa fargli pian piano capire che il pensiero su di sé deve essere suo e non continuare ad affidarsi al mio e deve anche sentire che io glielo permetto perché lui è altro da me e io gli riconosco questa dignità.
Sono parole che, come operatore, devo far diventare mie, che, come insegnante, devono tracciare una rotta aperta al crescere e al divenire. Se vogliamo favorire il distacco nel lavoro con le famiglie dobbiamo ricominciare ad ascoltare le loro voci e quelle delle persone fragili, imperfette, a cui essere accanto per esigere, come scrisse Giuseppe Pontiggia, il diritto a essere sé stessi.
Grazie a Mario e a tutti i partecipanti a questo evento molto sentito che speriamo possa essere alla base di un nuovo inizio per progettare insieme al territorio, alle famiglie e ai servizi nuove forme d’abitare il più possibile vicine alle nostre esigenze, bisogni e desideri.